Agata Christie, la “regina” dei gialli, era solita dire che “un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova”.
Adattando questa semplice, ma non del tutto scontata, verità, alle decisioni di politica monetaria della FED (ma oggi è molto probabile che anche la BCE segua la scelta della Banca Centrale Americana), si può arrivare alla conclusione (per quanto, come prevedibile, il “navigato” Jerome Powell sabbia “infarcito” la conferenza stampa con i soliti “se”) che il peggio sia alle spalle. Per la terza volta di fila, infatti, il board della Federal Reserve ha lasciato i tassi invariati, confermando il 5,25-5,50%. Il “pivot”, quindi, non è il più il 5,50-5,75%, e il punto da cui può partire verso la discesa rimane quello attuale.
Dunque, l’inflazione, come ci hanno detto i dati pubblicati un paio di giorni fa, sembra ormai destinata, mese dopo mese, a “limare” qualcosa, avvicinandosi sempre di più al 2%, con una progressione che dovrebbe portarla al 2,8% alla fine dell’anno in corso (3,1% a fine novembre), al 2,4% nel 2024, al 2,1% nel 2025 e al 2% nel 2026. Quindi, si può iniziare a considerarla non più un pericolo. Anzi, come molti economisti ci dicono, un livello del 2% può essere considerato un buon motore per la crescita, mantenendo i consumi su un livello di stimolo per l’economia e con le famiglie più fiduciose verso il futuro.
Di contro, le aspettative di discesa dei tassi, stanno accelerando il ritorno dei rendimenti obbligazionari su livelli più “sostenibili” per le casse statali e per le società emittenti. Rimanendo oltreoceano, i tassi dovrebbero scendere, nel 2024, al 4,5-4,75%: il mercato, quindi, “sconta” 3 tagli da 25 bp cadauno, per complessivi 75 bp. Per passate, poi, nel 2025, al 3,50-3,75% (pertanto, un altro calo dell’1%), per poi abbassarsi ulteriormente al 2,75-3% nel 2026.
A fornire ulteriori convincimenti alla Banca Usa l’andamento dell’economia.
Per quanto si sia, da quelle parti, ben lontani da una recessione, si può notare un certo rallentamento previsionale della crescita. L’anno dovrebbe chiudersi, in maniera quasi sorprendente, meglio di quanto previsto sino a qualche mese fa (+ 2,6% vso il + 2,1% indicato a settembre), ma per l’anno prossimo le prospettive sono certamente meno positive, scendendo al + 1,4%, per poi risalire, nei 2 anni successivi, al + 1,8 e + 1,9%.
Quello che stupisce è la “tenuta” dell’occupazione, ancorata ad un + 3,7% che rappresenta pur sempre un livello vicinissimo al massimo storico. Un aspetto, quello della “massima occupazione”, che non impedisce a Powell di dirsi comunque preoccupato che anche l’economia americana sia a rischio recessione, quasi a trovare una ulteriore motivazione per convincere i falchi chela strada scelta è quella più corretta.
Come sempre, gli “umori” americani si riverberano su quelli europei.
Come detto, nella riunione di oggi la BCE dovrebbe confermare gli attuali livelli di tasso. Anche in questa parte del mondo oramai è partito il “totoscommesse” su quando la Lagarde darà il via ai “tagli”.
Qualche esperto ha iniziato a sbilanciarsi (come Fitch Ratings), indicando in aprile la prima riduzione. Ipotesi indubbiamente “coraggiosa”, che potrebbe verificarsi nel caso in cui la discesa dell’inflazione procedesse in maniera piuttosto “spedita”, oltre che “lineare” e, allo stesso tempo, le indicazioni sulla crescita lasciassero spazio a dubbi sempre più forti. Peraltro, in termini di “armi” presenti nell’arsenale, la BCE è messa meglio rispetto alla FED americana: oltre al classico intervento monetario, infatti, la Banca Europea può contare sul PEPP, vale a dire il piano relativo agli acquisti di titoli obbligazionari a seguito della pandemia. Infatti, la Banca Centrale potrebbe decidere di interrompere il reinvestimento dei titoli acquistati. Che equivarrebbe a “mettere sul mercato” nuovi titoli, riducendo il bilancio. Aspetto che, unito alla sospensione del QE (il classico acquisto di titoli), già in essere, potrebbe “rallentare” il riposizionamento dei tassi, mantenendoli comunque ad un livello superiore di quanto non sarebbe se ci si limitasse a manovrare i tassi.
C’è da dire che, rispetto agli USA, in Europa, sul fronte della crescita, siamo certamente messi peggio, visto che non è un segreto che anche il trimestre in corso dovrebbe chiudersi con un segno meno (– 0,1%), sancendo una “recessione tecnica”.
I mercati, peraltro, “puntano” senza remore sulla svolta, convinti che si tornerà a politiche monetarie più accomodanti.
Ieri Wall Street ha ritoccato nuovi massimi, con il Nasdaq a + 1,27%, il Dow Jones + 1,40%, S&P 500 + 1,37%.
Contrastati, invece, questa mattina gli indici asiatici.
A Tokyo il Nikkei cede lo 0,71%. Anche Shanghai non brilla (– 0,33%), mentre si distingue a Hong Kong l’Hang Seng (+ 0,71%).
Futures sostenuti, in rialzo di circa mezzo punto percentuale a New York e di oltre l’1% in Europa.
In ripresa le materie prime.
Petrolio in rialzo dello 0,5% circa, con il WTI di nuovo vicino a $ 70 (69,87).
Gas naturale Usa + 0,81% ($ 2,359).
Oro di nuovo in “rampa di lancio”, a $ 2.048 (+ 2,46% questa mattina).
Spread sotto i 170 bp (168,8), con i BTP al 3,90%.
Bund 2,16%.
Treasury 3,95%, in ribasso di oltre 25 bp rispetto alla chiusura precedente.
€/$ a 1,0891, con l’€ in deciso rialzo.
Riprende quota il bitcoin, a $ 42.820.
Ps: e dunque, secondo l’OCSE, in Italia la popolazione in età da lavoro diminuirà, nei prossimi 40 anni, di oltre il 35%. E quindi avremo sempre meno lavoratori attivi e sempre più pensionati. Tra le tante, pesanti conseguenze (meglio non pensare ai conti dell’INPS…), c’è n’è una che fa riflettere: si stima che chi oggi ha 22 anni andrà in pensione all’età di 71. Altro che quota 100 (o 102, o 103, etc etc).